venerdì 15 gennaio 2016

VOLIM TE, SARAJEVO

Il 15 settembre ho avuto un appuntamento al buio
Questa è storia di quell'incontro.

Ci ha ricevuto con cielo azzurro e un sole che bruciava... e io che me la immaginavo bianca e fredda! Decidiamo salire un un tram vecchio e sporco che sembrava appena uscito da un tunnel del tempo. Osservo le persone che mi circondano: qualche turista, una manciata di studentesse, 3 uomini silenziosi, 4  signore chiacchierone e una vecchietta con una borsa piena di mele che guarda fuori dalla finestra con aria malinconica. All’improvviso sorride. 


Al di là del vetro ci sono almeno 10 manine minuscole che salutano. È un gruppetto di bambini, avranno 3-4 anni. La maestra che li accompagna sorride e io non posso non farmi una domanda: “sono così diversi questi bimbi da quelli del 1991?”. 

Il mio sguardo si perde tra le case di Sarajevo, le stesse che sono state oltraggiate e violentate dalle pallottole dei francotiratori nascosti come bestie tra le colline che circondano la città, le stesse colline che oggi, in questo caldo giorno di settembre, ci circondano e ci abbracciano. Rober guarda fuori dalla finestra ed io ho i brividi. Com’era innamorarsi in quegli anni? La tua vita diventava doppiamente funambola: pendeva dal filo della guerra da un lato e dal filo della vita/morte del tuo amato dall’altra. Gli innamorati sono doppiamente coraggiosi.


 
Il tram decide di proseguire sulla sinistra ed ecco che appare il fiume Miljacka, l’arteria di acqua tranquilla e scura che divide in due la città. Poco dopo superiamo il Ponte Latino. È qua che, nel 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando fu assassinato. È qua che iniziò la Prima Guerra Mondiale. Ma son sicura che nè il ponte, nè nessun’altro si sarebbe aspettata l’altra guerra che toccò a Sarajevo, come fosse una sfortunata lotteria. 


Arriviamo a Baščaršija, il quartiere turco, quello che più di tutti voglio esplorare. Nella mia mente profuma di baklava, fumo di narguilè e caffè. Sto degustando un baklava immaginario quando vedo l’enorme sagoma di un edificio rosso e gialo: è Vijećnica, l’antica biblioteca di Sarajevo, la stessa che la notte tra il 24 e il 25 di agosto bruciava desolata a mano del fuoco nemico. Nell’incendio si persero più di 2.000.000 di libri, storie, archivi e poesie. È nel Vijećnica che si scattò una delle foto più terribili di questa guerra assurda: la foto di Vedran Smailović, il ‘violoncellista di Sarajevo’ che si mise a suonare tra le rovine della biblioteca.

 
foto-credit: Wikipedia





Decidiamo fermarci 3 giorni a Sarajevo. Abbiamo percorso km e km della sua pelle, l’abbiamo guardata in faccia, abbiamo accarezzato le sue cicatrici, cercato dietro ogni angolo. Abbiamo conosciuto la sua storia più brillante, quella dei giochi olimpici invernali del 1984 e la più oscura, quella della guerra di Bosnia. Abbiamo percorso il tunnel della speranza, lo stesso che percorrevano gli abitanti della città durante l’assedio. Il tunnel è stato cuore, polmoni e aorta di Sarajevo durante mesi e mesi: era l’unico contatto esterno con il mondo e per contatto esterno intendo viveri e medicine... non si poteva chiedere di più a quel mondo, era troppo impegnato con le sue faccende per aprire gli occhi e vedere ciò che davvero stava succedendo. O forse, semplicemente, Sarajevo non era un tema urgente. Poteva aspettare. Aspettare cosa? ‘Una Srebrenica’ dice qualcuno con paura e rabbia. E a me vengono i brividi.





Abbiamo anche passeggiato tra le bancherelle del mercato Markale. Non volevo andarci ma nei viaggi, a volte, la nostra volontà non conta tanto come quella della città che visitiamo. Sarajevo mi ha fatto arrivare lì. Dove oggi c’è solo frutta e verdura, un giorno di febbraio di tanti –ma non troppi anni fa- scorrevano fiumi di sangue che si mescolavano con i pezzi di pane, mele e le urla di chi era lì per sopravvivere. 60 persone morirono. Oggi di loro, e di tanti altri, resta un ricordo con forma di rosa. Sono le ‘rose di Sarajevo’, le impronte delle granate esplose ricoperte di vernice rossa.





Ma Sarajevo non ci ha mostrato solo il suo passato, ci ha mostrato orgogliosa un presente pieno di vita, quello dei bicchieri colmi di birra e dei ‘cin cin’, quello degli sguardi sicuri e tranquilli perché una guerra non ti rende forte ma sopravvivere ad una guerra sí: come se la tua nuova vita fosse una nuova opportunità, come se avesse più valore, come se dovessi vivere per te e per tutti quelli che non ci sono più.





Abbiamo scoperto storie curiose come quella del propietario della tanerna ‘Inat Kuca’ che sorgeva dove oggi sorge il Vijećnica. Quest’uomo mostrò agli austriaci chi comandava… per costruire la biblioteca nel suo terreno avrebbero dovuto fare due cose: dargli una cassa piena di monete d’oro e smontare pietra dopo pietra la sua taverna per ricostruirla identica all’altro lato del fiume. Ottenne quello che volle e oggi l’ Inat Kuta si trova di fronte all’ex biblioteca –oggi edificio del comune- e sembra che quasi quasi gli faccia un occhiolino. Sarajevo 1- Austriaci 0.


Ma Sarajevo non solo si lascia visitare, Sarajevo si lascia mangiare: il primo boccone sapeva di burek di spinaci e formaggio, il secondo di cevapi alla brace con salsa kajmak, il terzo a baklava di noci e miele e l'ultimo ci lasciò in bocca il sapore del tè turco, trasparente e delizioso.




Se dovessi scegliere IL momento del nostro appuntamento non ho dubbi: quello di quel tramonto da una collina. Davanti a noi, bagnata dalle ultime luci dorate del giorno, lo skyline di Sarajevo. Uno skyline fatto di minareti delle moschee, di campanili delle chiese, di mostri di cemento dell’epoca comunista e soprattutto di siluette delle lapidi bianche che facevano solletico al cielo. Sarajevo non ha parchi. Tutti sono stati usati per dare una sepoltura degna ai morti di una guerra che gridava aiuto a un mondo che rimaneva in silenzio. 




Eravamo lì, pensando a quanto assurdo fosse tutto quando i minareti di tutte le moschee della città presero vita con la chiamata alla preghiera. Era come se la città ci stesse parlando, come se ci stesse abbracciando. Io volevo gridare ‘Volim te Sarajevo’, ti amo Sarajevo, ma lei non ha bisogno di urla, ha bisogno di orecchie. Così mi sedetti ad ascoltarla e ad amarla in silenzio.


Sarajevo con “s” di silenzio, di sangue, di sogni, di sopravvissuta. Ma soprattutto Sarajevo con “s” di sentimenti, i miei per lei.
Il 15 settembre avevo un appuntamento al buio. Il 16 settembre ero già follemente innamorata.


P.S. Se sei arrivato fin qua cercando ‘cosa fare a Sarajevo’ ho solo una raccomandazione: amarla.

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